Rito sommario e domanda riconvenzionale soggetta a riserva di collegialità: la declaratoria di incostituzionalità dell’articolo 702-ter c.p.c.

Corte Costituzionale, 26 novembre 2020, n. 253. Pres. Morelli, Est. Amoroso.

La Consulta ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 702 ter c.p.c., in virtù della mancata previsione della possibilità, per il giudice del sommario, di mutare il rito in ordinario qualora la domanda riconvenzionale, pregiudiziale rispetto a quella oggetto del ricorso sommario, rientri tra le cause in cui il Tribunale giudica in composizione collegiale (art. 50 bis, n. 6, c.p.c.).

La pronuncia interessa un procedimento sommario in cui veniva richiesta, in via principale, la restituzione da parte degli eredi di beni oggetto di testamento olografo, e, in via riconvenzionale, l’accertamento della nullità del testamento; fattispecie, quest’ultima, ricompresa nella riserva di collegialità e così non assoggettabile al procedimento ex art. 702 bis c.p.c., con conseguente pronuncia di inammissibilità della domanda riconvenzionale (art. 702 ter c.p.c.).

La questione veniva rimessa alla Corte Costituzionale in base ai parametri degli artt. 3 e 24 Cost.; secondo il giudice rimettente, la declaratoria di inammissibilità della domanda riconvenzionale si poneva in contrasto, innanzi tutto, col principio di ragionevolezza ex art. 3 Cost., atteso che la decisione separata delle due cause avrebbe potuto determinare un contrasto di giudicati. Inoltre, sarebbe stato violato l’art. 24 Cost., in quanto la disposizione censurata consentirebbe al ricorrente, in violazione del diritto di difesa del convenuto, di abusare dei propri poteri processuali ottenendo celermente una decisione sulla domanda principale dipendente in ragione della sommarietà del procedimento rispetto a quello ordinario, che il convenuto avrebbe dovuto incardinare a fronte della declaratoria di inammissibilità della domanda riconvenzionale.

La norma censurata, nel prevedere in ogni caso, ossia a prescindere dal tipo di connessione sussistente tra la causa riconvenzionale e quella principale, la declaratoria di inammissibilità della prima, ove demandata alla cognizione del tribunale in composizione collegiale, pone una conseguenza sproporzionata e, quindi, irragionevole ai sensi dell’art. 3 Cost.: è di meridiana evidenza che il bilanciamento degli interessi costituzionalmente rilevanti non deve essere realizzato con modalità tali da determinare il sacrificio o la compressione di uno di essi in misura eccessiva.

La Corte sovrana, in tema di inammissibilità dell’atto introduttivo del giudizio, aveva già in precedenza statuito che «le conseguenze sfavorevoli derivanti dall’inammissibilità non sono adeguatamente bilanciate dall’interesse ad evitare l’abuso» (sentenza n. 241 del 2017).

Anche nel caso di specie la Consulta si è espressa nel senso dell’illegittimità costituzionale, osservando che la disposizione censurata è irragionevole nella parte in cui ammette il mutamento di rito – da sommario a ordinario – nel caso in cui la domanda principale proposta con ricorso sommario sia connessa a una causa pregiudiziale promossa innanzi ad altro giudice; mentre impone la dichiarazione di inammissibilità della domanda riconvenzionale nel caso in cui questa risulti proposta innanzi allo stesso giudice e, diversamente dalla domanda principale, non rientri nell’ambito di applicazione del procedimento sommario. Col risultato paradossale che il simultaneus processus verrebbe garantito, in tal maniera, solo nel primo dei due casi.

D’altronde, il legislatore offre sempre la possibilità al giudice, sia mediante il simultaneus processus che con separazione delle cause, di disporre il mutamento del rito quando la trattazione non possa aver luogo con le forme scelte dalle parti; tranne nel caso specifico in cui la domanda non rientri nell’ambito applicativo del rito sommario, ove si impone la dichiarazione di inammissibilità.

In particolare, se la domanda principale, introdotta col rito sommario, e quella riconvenzionale pregiudicante, soggetta a riserva di collegialità, siano proposte davanti a due giudici diversi, si ha che – secondo la giurisprudenza di legittimità (cfr. Corte di cassazione, sezione sesta civile, sottosezione terza, ordinanza 2 gennaio 2012, n. 3) – il giudice del procedimento sommario non può sospendere la prima causa ex art. 295 c.p.c., ma deve mutare il rito fissando l’udienza di cui all’art. 183 c.p.c.

D’altronde, analoga soluzione interpretativa ha accolto la giurisprudenza di legittimità ove le due cause siano state proposte, entrambe in via principale, innanzi allo stesso giudice, rispettivamente con il rito sommario e con quello ordinario (cfr. Corte di cassazione, sezione sesta civile, sottosezione terza, ordinanza 7 dicembre 2018, n. 31801).

Sicché, stride che ciò non sia invece possibile, in ragione della perentorietà testuale della disposizione censurata, nel caso in cui le due cause siano proposte fin dall’inizio nello stesso processo, seppure col rito sommario, allorché la domanda riconvenzionale risulti essere soggetta a riserva di collegialità.

Inoltre, tale scelta legislativa appare ancor più irragionevole ove si consideri che la dichiarazione di inammissibilità comporta la chiusura in rito del processo e la conseguente necessità di riproporre la domanda, senza possibilità di far salvi i suoi effetti sostanziali e processuali; e, per giunta, che la relativa pronuncia, resa con ordinanza non impugnabile, non è censurabile neppure per un eventuale errore di valutazione del giudicante.

La reductio ad legitimitatem comporta quindi che, in caso di connessione per pregiudizialità, il giudice deve poter valutare le ragioni del convenuto a fronte di quelle dell’attore e, all’esito, mutare il rito, indirizzando la cognizione delle due domande congiuntamente nello stesso processo secondo il rito ordinario fissando l’udienza di cui all’art. 183 c.p.c., come nell’ipotesi, prevista dal terzo comma dell’art. 702 ter, in cui le difese svolte dalle parti richiedano un’istruzione non sommaria.

Pertanto, la Corte ha ritenuto che la valutazione in ordine alla possibilità di trattazione congiunta delle cause connesse per pregiudizialità debba sempre essere rimessa al giudice adito ai sensi dell’art. 702 bis c.p.c., previo mutamento di rito per entrambe in favore del procedimento a cognizione piena.

La pronuncia in commento, tuttavia, pur occupandosi della sola ipotesi di domanda riconvenzionale avente ad oggetto una causa pregiudiziale assoggettata a riserva di collegialità, offre l’occasione per un giudizio generale sul disvalore della inammissibilità in relazione a domande che non rientrano tra quelle indicate dall’art. 702 bis c.p.c.

Alla luce delle stesse argomentazioni della Corte risulta, infatti, di palmare evidenza che l’inammissibilità non sia soluzione ragionevole tutte le volte che la domanda riconvenzionale non rientri tra le ipotesi trattabili dal giudice in composizione monocratica.

In tali casi, difatti, il giudicante ben potrebbe disporre il mutamento del rito solo per la causa riconvenzionale per cui è imposta la trattazione collegiale, separando le due cause.

In altri termini, il regime previsto dal 3° comma dell’art. 702 ter dovrebbe costituire la regola generale per tutte le ipotesi di domanda riconvenzionale, sia per quelle che non richiedono un’istruzione sommaria, che per quelle che non rientrano nell’ambito di applicazione del rito speciale.

In conclusione, la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 702-ter, secondo comma, ultimo periodo, del codice di procedura civile, nella parte in cui non prevede che, qualora con la domanda riconvenzionale sia proposta una causa pregiudiziale a quella oggetto del ricorso principale e la stessa rientri tra quelle in cui il tribunale giudica in composizione collegiale, il giudice adito possa disporre il mutamento del rito fissando l’udienza di cui all’art. 183 cod. proc. civ.

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