RECENTI SENTENZE DELLA CORTE DI CASSAZIONE SULL’ART. 1284, COMMA 4, C.C.

A seguito della Sentenza n. 12449 del 7 maggio 2024 delle Sezioni Unite – con cui la S.C. aveva statuito che: «Ove il giudice disponga il pagamento degli “interessi legali” senza alcuna specificazione, deve intendersi che la misura degli interessi, decorrenti dopo la proposizione della domanda giudiziale, corrisponde al saggio previsto dall’art. 1284, comma 1, cod. civ. se manca nel titolo esecutivo giudiziale, anche sulla base di quanto risultante dalla sola motivazione, lo specifico accertamento della spettanza degli interessi, per il periodo successivo alla proposizione della domanda, secondo il saggio previsto dalla legislazione speciale relativa ai ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali», la Corte di Cassazione si è uniformata nei successivi arresti al principio: «Secondo l’orientamento allo stato tendenzialmente prevalente, la mera previsione della derogabilità del saggio d’interesse previsto dalla legge per il periodo successivo alla proposizione della domanda giudiziale nulla dice in ordine all’ambito applicativo dello stesso, che va desunto invece dal riferimento alla “legislazione speciale relativa ai ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali”; la norma in esame introduce una chiara eccezione alla disciplina generale di cui al primo comma dell’art. 1284, riferibile esclusivamente all’ipotesi in cui gli interessi costituiscano accessorio di un debito nascente da un negozio giuridico, e non risulta pertanto applicabile alle obbligazioni che non hanno fonte negoziale, non essendo ipotizzabile nemmeno in astratto, relativamente alle stesse, un accordo delle parti in ordine alla determinazione del saggio, la cui mancanza costituisce il presupposto fondamentale di operatività della disposizione» (cfr. Cass., Sez. II, 9/05/2022, n. 14512; 7/11/2018, n. 28409).

Il principio, enunciato con riferimento all’indennizzo dovuto a titolo di equa riparazione per irragionevole durata del processo, è stato ritenuto applicabile anche all’obbligazione di restituzione dell’indebito, avente la sua fonte nella legge (cfr. Cass., Sez. I 14/12/2022, n. 36595), in virtù della considerazione che il saggio d’interesse di cui all’art. 5 del D.Lgs. 9 ottobre 2002, n. 231, al quale l’art. 1284, quarto comma, cod. civ. rinvia attraverso il richiamo a “quello previsto dalla legislazione speciale relativa ai ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali”, trova applicazione, ai sensi dell’art. 1 di tale decreto, “ad ogni pagamento effettuato a titolo di corrispettivo in una transazione commerciale”, per tale intendendosi, ai sensi dell’art. 2, lett. a), “i contratti, comunque denominati, tra imprese, ovvero tra imprese e pubbliche amministrazioni, che comportano, in via esclusiva o prevalente, la consegna di merci o la prestazione di servizi contro il pagamento di un prezzo” (Cass. Civ., Ord. 29 luglio 2025, n. 21827).

Difatti, anche in un precedente arresto la Suprema Corte aveva statuito che «nella Relazione illustrativa all’art. 17D.L. n. 132/2014 (poi convertito in legge), che introdusse il comma quarto dell’art. 1284 c.c. (oltre che il quinto comma), è dichiarata l’esigenza di “evitare che i tempi del processo civile diventino una forma di finanziamento al ribasso (in ragione dell’applicazione del tasso di interesse) e dunque che il processo stesso venga a tal fine strumentalizzato“. Del resto, parecchie voci dottrinali hanno concluso che con tale novella si sia voluto introdurre una vera e propria pena privata a carico del debitore, sull’assunto che la misura prevedibile del risarcimento, essendo prima ancorata al (solo) saggio d’interesse legale, non costituisse una ragione sufficiente per indurlo ad astenersi dall’inadempimento, in quanto – per ipotesi – inferiore al lucro ritraibile dall’inadempimento stesso.

Tale ratio dell’intervento normativo del 2014 porta a riconsiderare come esso si possa collocare rispetto al disposto dell’art. 429, comma terzo, c.p.c., secondo l’assetto interpretativo dello stesso ormai da tempo raggiunto in base a diversi interventi sia della Corte costituzionale (sent. n. 13/1977; n. 207/1994; n. 459/2000) che di questa Corte di legittimità, anche a Sezioni unite.

 Senza pretesa di completezza, allora, giova ricordare che le Sezioni unite, chiamate a dirimere un contrasto nuovamente insorto nella Sezione lavoro della stessa Corte sulle modalità di calcolo della rivalutazione monetaria e degli interessi, nella sentenza 29.1.2001, n. 38, pur non mancando di rilevare che il debito di valore costituisce “categoria non legale, comunemente accettata per decenni nella pratica del foro ma ultimamente da qualcuno contestata“, hanno deciso di comporre il contrasto affermando che gli interessi debbono calcolarsi sulla somma via via rivalutata; il che (come le stesse Sezioni unite non hanno mancato di ricordare, richiamando il loro precedente e noto intervento n. 1712/1995) è la modalità tipica con cui si procede al risarcimento del danno da illecito extracontrattuale.

Inoltre, nella stessa decisione le Sezioni unite avevano espressamente affermato che già il calcolo degli interessi sul capitale via via rivalutato impone al datore di lavoro un aggravio rispetto alla mera ricostituzione del “valore” della retribuzione non corrisposta, che può giustificarsi solo in relazione a quella funzione di “remora” (ossia di pena privata), tipica del terzo comma dell’art. 429 c.p.c.

Pertanto, se il cumulo di rivalutazione monetaria e interessi assolve ex se al compito di coprire integralmente il danno emergente e il lucro cessante derivante dall’inadempimento, la disposizione di cui all’art. 1284, comma quarto, c.c. appare praticamente estranea alla materia dei crediti di lavoro […]

Ritiene in definitiva il Collegio che, se il cumulo di interessi legali, per così dire, a regime (vale a dire, ex art. 1284, comma primo, c.c.) e rivalutazione – cumulo già “penalizzante” per il debitore per come previsto ab origine dall’art. 429, comma terzo, c.p.c., vieppiù perché da calcolarsi come confermato dalle Sezioni unite nel 2001 – andasse ad includere, sia pure dal momento di proposizione della domanda giudiziale, anche gli interessi “punitivi” (cd. superinteressi) ex art. 1284, comma quarto, c.c., il risultato di siffatto, più che combinato, macchinoso disposto integrerebbe uno sproporzionato cumulo di c.d. pene private, e per questo sospettabile d’illegittimità costituzionale per irrazionalità manifesta ex art. 3 Cost.

Dunque, anche un’interpretazione costituzionalmente orientata di tali previsioni conduce ad escludere il su descritto esito esegetico» (Cass. Civ., Sent. del 30 aprile 2025, n. 11343).

Siamo lontani oramai dai tempi in cui la Suprema Corte, favorendo le direttive comunitarie e le relative norme di attuazione interne, proponeva un’interpretazione estensiva dell’applicazione dei super-interessi, previsti dall’art. 1284, comma 4, c.c. dall’introduzione del giudizio, al fine di contrastare il ritardo nei pagamenti (cfr. Cass. civ., Ord., del 3 gennaio 2023, n. 61), non come forma di sanzione punitiva per il debitore inadempiente, ma quale principio generale di efficienza economica nazionale.

Ma, d’altronde, se persino il cumulo di interessi legali ex art. 1284, comma primo, c.c., con la rivalutazione monetaria viene definita “penalizzante” per il debitore, che speranza d’attuazione poteva avere la norma introdotta dall’art. 17 del Decreto legge 12/09/2014, n. 132, rubricato Misure per il contrasto del ritardo nei pagamenti?

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